I mille autisti Ncc che ogni giorno si procurano clienti su Uber. E le migliaia che lavorano a Milano e Roma, ma con autorizzazioni ottenute altrove. A pagare il prezzo più salato del blocco imposto a Uber, in attesa del ricorso, potrebbero essere loro: i titolari delle 80mila licenze italiane per Noleggio con conducente. Autisti che hanno avviato un’attività muovendosi nelle pieghe di una norma del ’92, che certo non immaginava il web e gli smartphone.

La loro, dice il tribunale di Roma, è «concorrenza sleale».

Esultano i 45mila tassisti italiani: gli Ncc devono ricevere la prenotazione in rimessa, non per strada. Ma anche, scontro fratricida, i noleggiatori che hanno acquistato le licenze nelle grandi città, dove costavano di più: i colleghi autorizzati in un Comune di provincia, lì devono operare. Così la legge.

Solo che quella norma, raccontano le storie di chi lavora nel settore, ha creato un groviglio inestricabile di torti e ragioni. Di investimenti costruiti sulla sabbia, demoliti e rimessi in piedi da sentenze, proroghe, emendamenti. L’urgenza di una riforma del settore è tutta qui. Sperando che possa difendere anche gli interessi dei consumatori: in Italia 85mila persone hanno usato Uber negli ultimi tre mesi. Dalla prossima settimana rischiano di non trovare più corse.

 

L’UBERISTA / GREGORIO MAURIZIO

“Mi ritrovo con niente in mano e a mille chilometri da casa” «SE bloccano Uber ho finito di lavorare. Mi ritrovo senza nulla, a mille chilometri da casa». Gregorio Maurizio, 44 anni, si è trasferito a Roma da meno di un anno.

Trapanese, in Sicilia campava di stipendi saltuari, l’ultimo da impiegato in un supermercato. Così ha deciso di reinventarsi conducente d’auto, ha trovato a Roma una società con licenza Ncc a disposizione e acceso Uber, uno dei mille chauffeur affiliati alla piattaforma in Italia. «Per chi arriva da fuori è difficile costruire una rete di clienti – dice – l’app mi ha dato accesso a passeggeri di tutto il mondo». Lui parla inglese e spagnolo, racconta della coppia messicana che ha appena trasportato: «Vogliono un servizio di qualità e sono disposti a pagarlo, si fidano dell’applicazione e dei guidatori: è un lavoro che mi appassiona». Maurizio mostra con vanto le 1.163 recensioni a 5 stelle ricevute dai clienti. Il 90% dei suoi ricavi, «dai 2.500 ai 3.500 euro al mese», li fa grazie a Uber. La mattina prende l’auto in rimessa, fa una prima corsa prenotata in anticipo e poi avvia l’app. Riceve una chiamata dietro l’altra, senza tornare al posteggio: «Al Comune mi hanno garantito che è legale», racconta. Contrordine: il Tribunale ora blocca tutto. «Che fare? Stamattina ce lo chiedevamo con i colleghi a Fiumicino, in tanti non riuscirebbero più a pagare l’affitto. Io dovrei tornare in Sicilia». (f.s.)

 

IL CLIENTE / MARCO SANTINO

“Bloccare un servizio di qualità ci allontana dal resto del mondo” USCENDO dall’aeroporto di Lisbona, la settimana scorsa, Marco Santino si è trovato di fronte una fila di decine di persone in attesa del taxi. Allora ha tirato fuori lo smartphone: c’era un autista Uber a 50 metri pronto a caricarlo: «Ha il vantaggio di essere sempre disponibile, anche nei momenti più complessi».

Santino, 47 anni, gira molto per lavoro, è partner di una grossa società di consulenza. Ma gli capita di usare il servizio anche a Milano: «Spesso alla sera, quando esco a cena. Non ho preconcetti nei confronti dei taxi, credo solo che più offerta di qualità c’è, meglio è. Vietando Uber mi sembra che ci distanziamo un po’ dal resto del mondo». Chi usa Uber in Italia, 85mila persone negli ultimi tre mesi, ha profili simili. Manager che vanno di fretta, disposti a pagare per le tariffe di Black, o turisti in viaggio, per affari o per

piacere. Brad, 54 anni, americano, è proprietario di una società di dispositivi medici. Il suo Uber lo ha

appena portato in Campo de’ Fiori a Roma: «Vengo spesso in Italia per lavoro e uso sempre l’app: gli autisti parlano inglese, non c’è bisogno di contanti, non saprei come chiamare un taxi». Dice che bloccare il servizio sarebbe triste: «Pensi che in Russia ci sono addirittura due app concorrenti: il livello dei trasporti è molto aumentato».

 

L’NCC / MAXIMILIANO GALLO

“Per la licenza ho fatto un’ipoteca puntavo a un lavoro di lusso” QUANDO a 30 anni ha abbandonato il lavoro da tecnico informatico per fare l’Ncc, per prima cosa Maximiliano Gallo si è scaricato la legge. «L’ho letta e riletta – racconta oggi, dodici anni dopo – ed era chiaro che per avere una certezza dovevo acquistare la licenza a Roma». L’ha pagata 110mila euro, ipotecando casa, salvo vedere altri autisti operare nella Capitale con autorizzazioni prese «in provincia», a 10 mila euro. «Il valore è precipitato, ma dopo che abbiamo fatto bloccare i Comuni che rilasciavano licenze a pioggia è risalito, a 80mila euro», spiega. Venerdì la sua cooperativa, l’Anar, ha incassato un’altra vittoria, a fianco dei taxi nella causa contro Uber e gli oltre 6mila Ncc “stranieri” che ogni giorno vengono a lavorare a Roma. «Non ho mai usato l’app – dice – il nostro lavoro è diverso, di lusso». Lo chiama “limousine”, con la sua Classe S scarrozza anche per tre giorni turisti o uomini d’affari. «L’ho scelto per lavorare su prenotazione, non per fare il servizio di piazza», dice, pur ammettendo che se lo chiamano al cellulare mentre è in giro capita di accettare un servizio senza tornare in rimessa. Tolte spese e rate del prestito si guadagnano tremila “puliti” al mese, abbastanza per mantenere una famiglia con due figli. Aiuta il fatto che gli Ncc autorizzati a Roma sono solo mille: «Pochi – riconosce – ma la nostra natura non è sostituire il servizio taxi».

 

IL TASSISTA / STEFANO SANTILLI

“Non rifiutiamo la concorrenza però vogliamo che sia leale «GUARDI che ormai si prendono 1.300 euro al mese, 1.600 nei mesi buoni». Poche cose in Italia sono più misteriose e dibattute dello stipendio dei tassisti.

Stefano Santilli, 33 anni, autista di auto bianca da quasi dieci, assicura che «per chi lavora onestamente e in regola» è già a livelli di sostentamento. «S’immagina cosa potrebbe succedere se l’offerta di vetture a Roma raddoppiasse?». Negli ultimi anni, dice, è successo qualcosa di simile. Non perché il Comune abbia bandito nuove licenze, la lobby dei tassisti è sempre riuscita a bloccarle. Ma a causa degli Ncc che operano al limite delle regole: «Basta farsi un giro, otto vetture nere su dieci non sono di Roma», dice Santilli.

«Caricano clienti davanti a ristoranti e alberghi, sostando sul suolo pubblico. E Uber ha agevolato questa concorrenza sleale». Santilli racconta di aver speso circa 100mila euro per comprare una licenza, indebitandosi per trent’anni con l’idea di investire su un lavoro sicuro, «la certezza di essere autonomo, di portare a casa uno stipendio per una vita di lavoro». È questa garanzia che i tassisti, anche se non sempre con toni altrettanto pacati, ora cercano di difendere. Grazie alla sentenza di venerdì, con successo: «Il problema non è Uber, noi non rifiutiamo tecnologia e concorrenza. Però vogliamo che siano leali».

 

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Ultima modifica: 11 Aprile 2017