Niente da fare. Si ricomincia da capo. Il governo si piega al ricatto dei tassisti – l’ennesimo, dopo quello sul tassametro fiscale – e rimanda a un’ipotetica legge-delega dai tempi biblici e all’immancabile tavolo di confronto (un altro!) ogni aggiornamento della legge sul trasporto pubblico non di linea, la famigerata n. 21 del 1992.
Si parlava di ritocchi minimali – verrebbe da dire il “minimo sindacale” se non facesse rabbia – che tuttavia avrebbero aperto a un po’ di concorrenza regolamentando non tanto la versione pop di Uber, quella bloccata la scorsa estate dai giudici milanesi, ma la sua funzionalità standard operativa tramite autisti che prestano servizio di noleggio con conducente. Niente di futuristico, insomma: all’Italia, in questo senso, manca lo scheletro di un qualsiasi dinamismo. E non tocca solo Uber ma anche altri servizi di carpooling come Blablacar, che fra le attese per una legge sulla sharing economy e le speranze nel ddl concorrenza rimangono con un pugno di mosche di fronte all’ennesima estate nel limbo.
Il punto però è un altro. Il fantasma del disegno di legge sulla concorrenza è in discussione alle commissioni competenti delle Camere da oltre un anno. Ce ne dovrebbe essere uno ogni 365 giorni, di quei provvedimenti, ma sarà già tanto se quel che rimane delle finte liberalizzazioni passerà in primavera. Emendamenti e norme che avrebbero normalizzato il nostro Paese sotto il profilo dei trasporti, ma non solo, sono entrate e uscite a più riprese, in un giochino di minacce dal quale il governo di Matteo Renzi esce puntualmente con le ossa rotte. Altro che riforme. Specialmente dopo le molte prese di posizione di componenti del governo e parlamentari che in questi mesi hanno lavorato al ddl, il destino di questo lavoro è miserabile anzitutto per la politica.
Sul fronte dei taxi, a bloccare ogni iniziativa è stata prima la minaccia di bloccare l’Expo, poi il Giubileo, infine quella, sottovoce, d’inquinare la campagna elettorale in una Roma sofferente. Lo scenario paventato per la giornata di oggi e infine scongiurato col k.o. governativo di ieri. Insomma, ogni volta che spunta qualche comma che potrebbe aprire una fessurina nel mercato e tornare utile alla collettività, arricchendo i servizi ai cittadini e abbassando le tariffe, arriva la minaccia dello sciopero con automatico passo indietro che tiene il Paese inchiodato a un’epoca morta e sepolta. Per inciso, a nulla serve il nuovo corso dato a Uber dal country manager Carlo Tursi, uno che non ama i toni ultimativi, che cerca da mesi soluzioni fattibili, ma che certo farebbe fatica, stavolta, a non scomodare la parola “vergogna“.
Almeno Bersani allo scontro ci arrivò, nel 2006, quando era ministro dello Sviluppo economico: alla fine cedette pure lui, accontentandosi di uno strano pareggio, ma un po’ di autorevolezza ebbe il coraggio di esprimerla e i taxi in piazza ce li fece andare. In questo caso, vuoi per la crisi di nervi che stanno vivendo le grandi città italiane perse in un vortice d’immondizia morale e materiale, vuoi per l’inarrestabile marcia del digitale che ha fatto saltare le garanzie di caste garantite da tempo immemore, neanche la voglia di alzare la voce. “Prego, tutto quello che volete”.
Il paradosso è che Uber, in Italia, è ridotto all’osso. E mentre quasi ovunque è di fatto un servizio low-cost, o una buona alternativa alle auto gialle, da noi le tariffe non possono calare e dunque si configura come una proposta quasi di lusso. Come al solito non si tratta né di difendere uno specifico servizio, né di contestarne alcuni aspetti. Nessuno ci paga da Uber, né tantomeno dai sindacati dei tassisti, con buona pace di chi immagina una stampa spalleggiatrice. Si tratta, semplicemente, di chiedere a gran voce che venga finalmente predisposto uno scenario favorevole all’espansione di nuove realtà, magari utili ai cittadini, favorendo la concorrenza e, certo, stabilendo limiti e garanzie per ogni soggetto coinvolto.
Diceva bene ieri Oscar Giannino su Facebook: complimenti ai tassisti. Perché è grazie a loro che “tutti siamo meglio in grado di apprezzare l’incapacità del governo su questo terreno: incapacità non di bastonare i tassisti, ma di saper proporre linee guida chiare capaci di declinare insieme l’apertura a piattaforme digitali di trasporto punto-punto a tariffa non regolamentata, con un necessario regime transitorio in cui riconoscere il giusto ristoro all’ammortamento residuo delle licenze comprate dai tassisti a peso d’oro nell’attuale regime regolatorio”.
Quello sarebbe il compito di un governo autorevole: mediare, certo, ma alla fine costruire una soluzione sostenibile da entrambe le parti. Nel caso specifico, un’apertura progressiva negli anni e, pure se non se lo meriterebbero, un qualche meccanismo in grado di ammortizzare le perdite per le licenze. Anche se, lo ripetiamo, quelle potenziali perdite le hanno probabilmente già ammortizzate da tempo impostando il conteggio da cifre irragionevoli, violando a più riprese gli obblighi di trasporto pubblico (la cronaca ne è piena) e rifiutando che il tassametro funzioni come un registratore di cassa, come in qualsiasi altro ambito commerciale.
Se alla fine non si riuscisse in ogni caso a trovare una via di mezzo, amen: si rischierebbe anche di bloccare Roma per qualche ora pur di inviare un segnale chiaro che le cose devono cambiare. E invece sottozero. Ma lo strumentale fraintendimento è proprio quello: le categorie interessate da questi fenomeni hanno certo il diritto di rivendicare alcune tutele. Tuttavia devono mettersi in testa che i tavoli che vengono aperti ai ministeri non servono per prendere il caffè ma per arrivare a una soluzione condivisa in mancanza della quale il governo farà da solo. Ma per fare da solo quell’esecutivo dovrebbe essere autorevole, forte, con una linea chiara e una maggioranza compatta.
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Ultima modifica: 21 Marzo 2016